Nicolas Ballario, curatore, critico e giornalista.

È il maggio del 1950 quando il Metropolitan Museum annuncia l’organizzazione di una importante

mostra dedicata all’arte contemporanea del momento. Vengono esclusi dagli inviti a tale mostra tutti gli

artisti che in quel momento usano un linguaggio pittorico nuovo e irruente, che fa riferimento

all’espressionismo astratto. Molti artisti imbastiscono una veemente protesta contro i dirigenti del Museo

e Barnett Newman, il principale animatore di questa “rivolta”, chiama la fotografa Nina Leen per scattare

una fotografia che passerà alla storia. Un gruppo incredibile di artisti, sovversivi vestiti da banchieri. Sono

lo stesso Newman, Jackson Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, Robert Motherwell, Adolph Gottlieb,

William Baziotes, James Brooks, Bradley Walker Tomlin, Jimmy Ernst, Ad Reinhardt, Richard Pousette-Dart,

Theodoros Stamos, Clyfford Still e Hedda Sterne. Il quotidiano Herald Tribune darà a questo gruppo di

artisti un nome evocativo e destinato a durare: gli Irascibili. Chi irruente, prorompente, violento nei gesti

della pennellata o della sgocciolatura, chi invece intenso e riflessivo nel gestuale approccio alla

composizione della tela, il comune denominatore di questi artisti era la personalità estrema, ma

soprattutto la interpretazione della pittura come concetto puro e assoluto.

Tatiana Carapostol (inconsapevolmente o no, non mi interessa) guarda proprio a quel mondo. Nella sua

pittura è il gesto a contenere in sé il vero senso dell’arte, e quello di creare diventa un rito spirituale che va

ben oltre il concetto classico di pittura. È una pittura astratta e potente, trascendentale. Dipinge qualcosa

di onirico, senza badare al gradimento o all’approvazione. In quanto artista si spoglia di qualsiasi tipo di

idea o concetto, e lavora solamente attraverso una tendenza innata. A differenza dei pittori sopra citati,

però, mi pare di capire che Tatiana sia meno irascibile, o se volete meno incazzata. Le sue tele, sebbene

profonde, sono intime e gentili, forse per il valore espressivo intrinseco legato al colore, che consegna al

concetto di armonia una efficacia che va ben al di là della “coerenza tonale”. Sa costringere le sue non-

forme in una posizione subordinata ad altre quando serve, creando simmetrie ed equilibri, dosando

pesantezze, dinamicità e sentimento.

Lo storico Ernst Gombrich diceva che l’arte ha due strategie per essere posta in essere. C’è quella che

semplicemente rispecchia la realtà, e quindi è perfettamente speculare al mondo e si esaurisce con la

funzione della cronaca. Poi c’è quella più profonda, la più comune nella grande arte classica, che noi tutti

conosciamo su tela, su superficie piatta. Gombrich intendeva che l’artista non è nient’altro che un

cartografo, un geografo che prende spunti nel mondo e li mette insieme unendoli appunto su una

superficie e creando una carta geografica delle emozioni. Quello che fa Tatiana Carapostol è tracciare una

mappa della coscienza, una sorta di percorso della spiritualità che è tipica di ogni essere umano. La sua

ricerca cammina sulle gambe dell’istinto, la sua esigenza è quella di trovare un lessico teatrale, nel quale

le forme arrivino ad assumere il ruolo di interpreti. Sebbene possa ricordare il primo Kline e in certe

espressioni anche Pollock, nella pittura di Tatiana Carapostol il gesto non è quello di chi dipinge, come

nell’action painting, ma è dentro la tela. Ed è un gesto assoluto, che svela il proprio sorprendente percorso

solo ad avventura compiuta. Un racconto che per essere vissuto chiede di abbandonare il mondo e di

entrare nel dipinto.